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Mehala

Diario

Siamo Jurij e Michela, genitori di Gabriele, nato nel 2009, e di Krishna, nato nel 2014 e divenuto nostro figlio dopo il percorso adottivo fatto con Mehala.

Quelle che seguono sono le pagine che abbiamo scritto nel corso dei quindici giorni trascorsi in India, nell’agosto del 2018, e che ci hanno portato ad allargare la nostra famiglia.

Non abbiamo l’abitudine di scrivere diari, ma questi pensieri sono scaturiti in maniera spontanea, per lasciare una traccia di questa esperienza che stavamo vivendo tutti insieme.

In India

La notte è passata serena e senza pensieri, per la prima volta dopo molti mesi. Sarà stata la stanchezza per un volo dove abbiamo riposato pochissimo o più probabilmente per aver raggiunto quel traguardo che inseguivamo da molto e che, negli ultimi tempi, sembrava solo costellato di ostacoli. Ma ora, dopo un percorso durato tre anni, faticoso e ricco di emozioni, siamo finalmente in India e stiamo per incontrare il piccolo Krishna: il bambino che conosciamo già da un anno ma solo tramite foto, relazioni e qualche breve video. Un bambino che tra poco entrerà a far parte della nostra famiglia, della nostra vita.

Abbiamo lasciato la città di Mumbai che ci ha ospitato per una notte, e in tarda mattinata siamo arrivati nell’aeroporto per i voli interni. L’attesa agli imbarchi ci permette di parlare a lungo con Christie, la nostra referente, e conoscerla meglio. Sarà lei che condividerà con noi questa emozionante esperienza e che ci aiuterà ad affrontare le giornate successive al primo incontro: un momento di cui abbiamo sentito parlare tante volte nel percorso di preparazione all’adozione e che ci ha sempre lasciato carichi di domande.

Christie è una ragazza giovane, ma si capisce subito che è appassionata del suo lavoro, oltre che precisa e molto organizzata. È stata lei ad inviare a Mehala le relazioni, le foto e i video fatti con il cellulare che dal momento dell’abbinamento ci hanno raccontato qualcosa di più di questo bambino, che sembra molto timido e taciturno e di cui abbiamo faticato a comprenderne la statura.

Il volo per Nanded dura poco più di un’ora e ci porta, con un piccolo aereo pieno per lo più di famiglie sikh, nel centro dell’India. In pochi minuti, a bordo di un fuoristrada, siamo già nel traffico di Nanded, gremito di animali di tutti i tipi, oltre che di auto, moto e tuk tuk, e un’ora dopo ci troviamo all’hotel che Christie ha trovato per noi. Un alloggio perfetto, a dispetto di quanto si era premurata di anticiparci.

Ci troviamo in una città che è fuori dalle rotte abituali del turismo internazionale e su cui abbiamo trovato effettivamente poche informazioni. È meta però, ci racconta Christie, di pellegrini sikh provenienti da tutta l’India perché ospita un importante tempio venerato dai seguaci di questa religione. Impossibile quindi trovare hotel internazionali o servizi per viaggiatori esigenti. Ma sappiamo di non essere qui per una vacanza e in ogni caso la sistemazione trovata ci sembra perfetta e molto intima.

Il tempo di cambiarci d’abito e siamo nuovamente in auto alla volta di Loha, la piccola cittadina dove si trova l’istituto che ha cresciuto il nostro Krishna.

Il paesaggio che scorre dal finestrino si è fa sempre più verde, le case sempre più rade, le buche sulle strade sempre più grosse. Nostro figlio Gabriele guarda tutto con curiosità ma facciamo fatica a capire come sta vivendo questa esperienza che lo sta portando a conoscere suo fratello.

Ci vuole più di un’ora per raggiungere la poverissima Loha e un attimo dopo ci troviamo parcheggiati in un acquitrino fangoso davanti ad un edificio anonimo e precario come molti altri, su cui svetta una piccola insegna che avevamo già visto nelle foto abbinate alle relazioni. È l’ingresso dell’istituto.

Quello di oggi è l’incontro preliminare, fissato dall’istituto per farci incontrare reciprocamente per la prima volta. Sappiamo dai racconti di altre famiglie che hanno condiviso la loro esperienza che ci sono state situazioni in cui ci si è dovuti vedere più volte prima di portare il bambino fuori dall’istituto e altre in cui i piccoli sono stati affidati alle nuove famiglie fin da subito. Noi ancora non sappiamo quante volte dovremmo tornare a Loha ma la presenza della nostra referente di rende tranquilli.

Unnatisheel Mahila Mandal

Siamo accolti da tutto il personale femminile con una cerimonia di benvenuto che avviene sul cancello di ingresso. Ci fanno indossare delle collane di fiori e segnano le nostre fronti con della porpora rossa e subito dopo ci fanno accomodare in un ufficio che è quello della direttrice. È una stanza poco illuminata e sovrastata da un ventilatore che gira vorticosamente. Dietro la scrivania un grosso armadio custodisce probabilmente le storie dei bambini che in quel luogo vivono o vi hanno transitato. Sulle pareti numerose foto decorano la stanza, ma sono quasi tutte datate e scolorite, come se la storia di quell’istituto fosse più vecchia di quello che sappiamo essere o come se i nuovi ritratti dei bambini non siano mai stati esposti.

Sediamo tutti su un divano che occupa una delle pareti e attendiamo impazienti, scrutando verso la porta la comparsa di Krishna e senza comprendere le voci e le parole che attorno a noi vengono pronunciate.

Dopo un’attesa che sembrava infinita e diversi falsi allarmi dati da vari bambini che di tanto in tanto si affacciano alla porta, Krishna fa il suo ingresso nella stanza e l’emozione è per noi incontenibile. È veramente piccolo, più di quanto ci eravamo immaginati e non dimostra i quattro anni e mezzo che dovrebbe avere. Lentamente, con molta timidezza, si porta al centro della stanza. Si vede che è spaventato e poco consapevole di chi siano tutte quelle persone sconosciute che lo guardano, lo fotografano e ripetono il suo nome.

Tra le braccia rassicuranti di Christie, che già lo aveva conosciuto nei precedenti incontri, e grazie a Gabriele, Krishna inizia ad interagire con noi. È incuriosito dalle macchinine di Gabry, che guarda fingendo poco interesse e inizia ridere quando qualcuno gliele fa passare sulla testa o sulle braccia. Poi Michela gli offre un biscotto e la sua attenzione si spostata immediatamente su quel dono che gusta con piacere fino all’ultima briciola. Ma il gioco che rompe ogni barriera è quello di fare a pezzi le collane floreali che ci erano state regalate: ha inizio una battaglia di petali con cui sommergiamo l’ufficio della direttrice. Krishna ride con gusto, e la sua risata è contagiosa e carica di gioia.

Ceniamo tutti insieme, mangiando sul pavimento della stanza e osservando questo bambino che sembra essersi già abituato alla nostra presenza e che gusta con appetito un ricco piatto che forse per lui è già una festa.

Salutiamo Krishna che è tornato tra le braccia di una didi, le donne che si occupano dei bambini, e usciamo dall’istituto con il buio che avvolge già ogni cosa, ripercorrendo nel cuore della notte la strada verso l’albergo. Siamo carichi di emozioni contrastanti, tra paure e grandi gioie. Domani passeremo con lui tutta la giornata.

Il grande passo

Si può provare paura quando mancano poche ore al raggiungimento del traguardo adottivo? È normale chiedersi ora se abbiamo fatto la cosa giusta? Saremo capaci di dare a questo bambino l’affetto che merita e sentirlo realmente nostro figlio? Questi pensieri hanno agitato il nostro sonno la notte prima che Krishna avrebbe probabilmente lasciato per sempre il suo istituto: quel luogo che è stata la sua casa nei primi quattro anni della sua vita; il giorno in cui avrebbe salutato le donne che lo hanno cresciuto e certamente amato e in cui avrebbe detto un inconsapevole addio ai suoi compagni di gioco.

La lunga attesa per partire verso Loha non ha aiutato. Attendavamo l’auto che avrebbe dovuto portarci all’istituto di prima mattina, ma due ore dopo siamo ancora in camera senza sapere il perché di tanto ritardo. Mentre Christie cercava di comunicare senza successo con l’istituto, Gabriele è sempre più ansioso e nervoso, e noi mortificati del fatto che tutto quello è un tempo sottratto alla nostra giornata speciale.

Solo nel primo pomeriggio i nostri autisti si presentano nel parcheggio dell’albergo – dopo le numerosissime chiamate di Christie – ma con un’auto già occupata da altre tre donne dell’istituto.

Stipati in otto sul nostro pick-up affrontiamo ancora il caotico traffico di Nanded senza purtroppo sapere che l’istituto sarebbe stato solo l’ultima tappa di una serie di giri che erano stati programmati. Le donne dell’istituto pretendono da parte nostra l’acquisto di cibo e decorazioni per la festa di addio di Krishna, nonché giochi per gli altri bambini e dei sari per tutte le didi. Christie ha nuovamente dovuto discutere e contrattare per arrivare a dei compromessi che non ci hanno comunque impedito di passare da un negozio all’altro tra ingorghi e processioni. Quando finalmente arriviamo a Loha, con Gabriele ormai nervosissimo, avevamo già la certezza di non poter più esplorare i dintorni dell’istituto, vedere gli abitanti, conoscere – seppur superficialmente – quel luogo che è stato il paese natale di nostro figlio.

Nell’ufficio della direttrice questa volta troviamo il dottore che si occupa dei bambini dell’istituto. Anche lui, come noi, è in attesa. Mentre Christie si dedica al controllo di vari incartamenti, noi pazientiamo l’arrivo di Krishna, seduti ancora sul divanetto e rivolti con lo sguardo verso la porta di ingresso. Nel frattempo tutte le domande che avevamo minuziosamente preparato per cercare di conoscere qualche dettaglio in più sul passato di Krishna vengono eluse con superficialità dalla direttrice e non abbiamo neppure la possibilità di vedere un voluminoso fascicolo riguardante la sua storia che viene frettolosamente richiuso nell’armadio.

Krishna per fortuna arriva poco dopo e il nuovo incontro è più semplice e in un attimo è già tra le braccia di Michela.

Ci viene data la possibilità di trasferirci nel salone dei bambini e almeno quella è un’occasione per conoscere più da vicino la realtà dell’istituto.

La stanza dove ci portano è il luogo che sappiamo essere il centro di quasi tutte le attività per i bambini: lì mangiano, giocano e dormono, ma quello in cui entriamo non sembra affatto un posto accogliente e tanto meno pensato per far crescere dei piccoli bisognosi di affetto e di stimoli.

La stanza è in una perenne penombra e appena vi si entra a colpire è l’odore dell’urina che impregna i tessuti. Il locale è occupato principalmente da numerosissime culle, un letto a castello a tre piani ed una branda. Un armadio, pericolosamente inclinato su un lato e con uno specchio che non riflette più nulla, ed un vecchio televisore poggiato su una mensola, sono fra i pochi arredi che riempiono il locale. Su un mobiletto sono ammassati numerosissimi flaconi di medicinali gettati alla rinfusa e così sporchi da non riuscire a distinguerne le etichette. Su un lato della stanza dondola una culla in metallo appesa al soffitto da dove mi osserva un bambino di pochi mesi. Sul pavimento ci sono pochissimi e malridotti peluche e nessun altro gioco.

E poi ci sono loro, i bambini, che ci stanno aspettando ammassati su una cerata giallognola che copre parte del pavimento. Saranno circa una dozzina e molti non sembrano essere in buone condizioni di salute. C’è chi striscia sul pavimento solo con la forza delle braccine senza riuscire a muovere le gambe, chi perde sangue dall’orecchio, chi piange e chi sembra perso in un mondo tutto suo. È difficile non pensare che quello non sia affatto l’ambiente ideale per stimolante e far crescere dei bambini. Men che meno per essere anche la loro casa.

Le didi sedute a terra ci guardano, si fanno fotografare, afferrano le teste dei bambini più agitati per metterli in posa, ma faccio capire loro che non voglio. A gestire la situazione, a metterci maggiormente a nostro agio, sono principalmente tre splendide bambine. Avranno sette o otto anni e si comportano già come mamme mature ed amorevoli nei confronti di tutti gli altri. Coccolano i più piccoli, si mettono in pose da star, seguono Gabriele che guardano con curiosità, sorridendo e bisbigliando fra loro.

Abbiamo il tempo di osservare tutti i bambini e di giocare con ognuno di loro.

Christie, che nel frattempo ci ha raggiunto, osserva con attenzione Sarthak e Samarth, altri due bambini che arriveranno in Italia tramite Mehala e di cui conosciamo già le famiglie. Ma cerca anche di capire amorevolmente in che stato si trovino tutti gli altri.

L’odore di quel luogo ha ormai impregnato i nostri vestiti. Molti bambini hanno preso confidenza con noi e lasciano andare le loro inibizioni. Mentre io scatto numerose fotografie, Gabriele, da bravo fratello maggiore, segue e tiene per mano Krishna, mentre Michela risponde alle curiosità delle didi. Christie inizia ad intonare numerose canzoncine che coinvolgono molti ma lasciano indifferenti altri. È come se per alcuni bambini quel luogo trattenga le emozioni e le gioie che dovrebbero essere tipiche dell’infanzia. Molti visi sono spenti e neppure un momento di gioco come quello che si è creato sembra scalfire la loro apatia. Anche Krishna, che fuori da quella stanza rideva e giocava, lì dentro spegne il suo sorriso e torna ad essere quel bambino silenzioso che abbiamo osservato a lungo nelle foto e nei video che osservavamo da Mehala.

Oltre a questo locale riusciamo a vedere poco altro: l’edificio è una struttura incompleta e senza protezioni, semplice e spartana. Dal cancello di ingresso da cui siamo entrati si accede ad un piccolo porticato esterno, punteggiato da alcune colonne, che collega i vari ambienti dell’istituto disposti in maniera lineare uno a fianco all’altro. Un piccolo tempietto, in cui arde una fiammella, custodisce alcune statuine di divinità indiane. La prima stanza è quella della direttrice, che ha una piccola anticamera e che si collega ad un altro ufficio. Poi c’è il salone dove vivono e dormono i bambini. Poco più in fondo le cucine e un cortile con appesa una culla, vuota e solitaria. In fine c’è un ingresso carrabile che sembra poco utilizzato, dove penzolano ad asciugare i vestiti fuori misura che abbiamo visto uguali nelle foto di tutti i bambini. C’è anche una porticina che conduce nel campo retrostante, che in questo momento è sommerso dall’acqua. Vorrei vedere i bagni, ma mi rendo conto di non avere il coraggio di entrarci a piedi nudi.

Delle scale in cemento grezzo e senza parapetto, da cui sporgono pericolosamente i ferri della struttura, come se non fossero state mai completate, portano al piano superiore dove probabilmente ci sono gli alloggi del personale.

Quando abbiamo ormai perso la cognizione del tempo veniamo chiamati ancora nell’ufficio della direttrice. Al centro della piccola stanza è stata collocata una vecchia culla in metallo addobbata con numerose ghirlande di fiori e con all’interno due vecchi e polverosi peluche ancora incartati, i dolci che abbiamo comprato a Nanded ed un quadretto che ritrae delle divinità. È il momento della cerimonia per salutare Krishna. Tutto si svolge lì, in una stanza angusta che a malapena contiene noi adulti e a cui gli altri bambini sono stati tristemente esclusi.

Collane di fiori, scialli, sari, porpora e riso sulle nostre fronti. Il rito è tradizionale e moderno allo stesso tempo e ci coinvolge tutti. Perdiamo il conto dei selfie e delle foto che ci vengono scattate, con cui potranno vantarsi del loro operato. Krishna è chiaramente frastornato, così come Gabriele, mentre tutti ondeggiamo al ritmo della canzone che viene ripetuta all’infinito. Forse, con un’altra atmosfera, con altri atteggiamenti, avremmo apprezzato di più. Invece il calare del sole è già alle porte e la stanchezza, per quella giornata cominciata da un ingiustificabile ritardo, inizia a salire. Abbiamo voglia di andarcene, anche se già so che avrei voluto fotografare di più, avere più risposte, conoscere meglio quel luogo che forse non rivedremo mai più.

Krishna si avvia verso la vettura sorridendo e facendo “ciao” con la manina ai suoi amici che si sono portati sul cancello. Chissà quale consapevolezza c’è tra tutti loro di questo momento.

Lasciamo l’Unnatisheel Mahila Mandal, scoprendo però che la nostra intimità familiare non può ancora essere rispettata. Sulla jeep ci sono ancora diverse donne dell’istituto e la nostra destinazione veniamo a scoprire non essere quella che speravamo…

Sembra che su un documento manchi ancora di una firma di un funzionario e bisogna anche correre perché il rischio è quello di trovare gli uffici di Nanded chiusi.

Mentre l’oscurità sopraggiunge inesorabile, Krishna è in piedi tra le gambe di Michela ad osservare il panorama che scorre rapido dal finestrino. Dopo un paio di brusche frenate chiediamo di andare più piano perché quella fretta è del tutto ingiustificata e non ci sembra il caso di fare un incidente proprio adesso. Questo clamoroso ritardo non è causato da noi, anche se le donne dell’istituto hanno il coraggio di dire a Christie il contrario. La stanchezza e la rabbia salgono e dopo l’ennesimo errore commesso con i documenti di Krishna (la nostra partenza per l’India è stata ritardata di diversi mesi per una serie di distrazioni avvenute nella compilazione dei documenti che servivano a completare le pratiche) si avrebbe voglia di dir loro in faccia quello che pensiamo, quello che ci hanno fatto passare per mesi a causa della loro superficialità. Errori che hanno sottratto tempo prezioso alla nostra unione. Ma sappiamo di non poterlo fare e restiamo zitti sui nostri sedili. Nel frattempo Krishna, carico di emozioni e di scoperte, si è addormentato tra le braccia della mamma.

Un ultimo sforzo

A Nanded è un continuo peregrinare, senza che ci sia chiaro chi o cosa stiamo cercando: prima raggiungiamo un ufficio, quindi la casa di qualcuno che però sembra non esserci, poi ad un incrocio carichiamo in auto un’altra donna e infine raggiungiamo un edificio dove tutti insieme dobbiamo entrare. Anche Christie sembra non capire e noi fatichiamo a chiedere spiegazioni.

Sembra surreale, ma dopo una giornata del genere che sembra non avere fine ci ritroviamo catapultati in un altro istituto nel centro di Nanded!

I bambini qui ospitati si stanno preparando per la cena; noi invece siamo ancora a digiuno dalla mattina. Fortunatamente i biscotti che abbiamo nello zaino placano la fame dei nostri due piccoli.

Attendiamo seduti in un ufficio sovrastato dai ritratti dei leader della nazione e dalla foto di quella che Christie ci racconta essere una famosa attrice di film per adulti e di suo marito che sembra abbiano adottato un bambino proprio lì. Su un lato della stanza siamo schierati noi cinque mentre su quella opposta, divisi da una grande scrivania, le donne dell’istituto di Loha. Quando arriva l’uomo che tutti stavamo aspettando, capiamo anche noi che è un importante funzionario e che non è affatto di buon umore. L’orologio, sulla parete rischiarata dai neon, segna le 20.10 e mi chiedo per quante ore lavorino gli indiani. Sapremo poi che il suo umore era pessimo proprio perché è stato scomodato a casa sua per tornare ad occuparsi di questa pratica.

La discussione a cui assistiamo è accesa e i toni sono chiaramente poco amichevoli. Io e Michela, che siamo separati dalle sedie con i bambini, ci guardiamo con preoccupazione. Non servono parole tra di noi, né tanto meno comprendere il marathi, per capire che si sta parlando di noi, di Krishna, di questa adozione.

In un continuo passaggio di documenti e faldoni è finalmente Christie a prendere la parola e a spiegare, in inglese, tutta la situazione di inefficienza e di ritardi dovuti ad un lavoro superficiale e per niente attento, che si è protratta per mesi che è culminata con questo ennesimo errore. Le donne dell’istituto cercano di controbattere ma Christie, con determinazione, le mette a tacere, elencando tutti i problemi che si sono verificati con la nostra pratica e che si augura non verranno ricommessi con gli altri bambini, bisognosi di cure mediche, che attendono una famiglia.

Il funzionario ci chiede il tanto sospirato passaporto di Krishna che tolgo dallo zaino e passo in altre mani con preoccupazione. Poi sono necessarie le nostre firme e vengono chieste le nostre professioni. Capiamo di essere finalmente giunti alla fine di questa ennesima prova quando si passa alle foto di rito, prima con Krishna in braccio al funzionario, poi con lui che mi imbocca con un dolcetto allo zenzero. Chissà, forse compariremo anche noi appesi alla parete dell’ufficio a fianco della pornodiva…

Alle nove e mezza di sera, nel pieno del buio indiano, arriviamo finalmente davanti al nostro albergo. Le didi continuano ad abbracciare e baciare Krishna, quasi a non volersene separare. Una di loro inizia a piangere continuando a baciarlo tra le braccia di Michela. È una separazione dolorosa da quelle donne che per oltre quattro anni hanno cresciuto nostro figlio; un momento che avrebbe meritato più comprensione ma che in quel momento bisogna interrompere. Christie ci fa allontanare per non prolungare ulteriormente lo spaesamento di Krishna e perché siamo tutti stanchi e affamati.

Mentre la pioggia monsonica, che ci ha graziato per tutto il giorno, inizia a cadere dal cielo e a rinfrescare l’aria, possiamo finalmente unirci nella nostra intimità.

Insieme

L’hotel nella periferia di Nanded è stato per noi una piccola ed accogliente casa che nella sua semplicità ci ha accolto tra le sue mura e ha traghettato tutti noi verso una nuova vita.

Lo spazio non è molto, ma ci siamo organizzati per condividerlo al meglio: un materasso sul pavimento per poter dormire tutti vicini e un piccolo tavolino per poggiare i pasti di volta in volta consumati sul pavimento, sul letto o su una delle poltroncine, visto che l’albergo non ha un ristorante. Anche il personale è sempre molto disponibile e attento alle nostre esigenze e da subito ogni volto ci è già familiare.

Krishna ci regala continui sorrisi, gioca con noi, inizia già ad imitare Gabriele e si fa lavare divertito e senza problemi da Christie e Michela.

Speravamo di riuscire a dargli un po’ di continuità con gli orari che avevano sempre scandito la sua vita in istituto, ma già la giornata appena trascorsa aveva fatto in modo che solo verso le 23 lo stavamo preparando per la sua prima notte con noi.

Christie è con noi in ogni momento e, come un’ostetrica che aiuta una neo mamma a conoscere le necessità e i bisogni di un neonato, anche le ci affianca con naturalezza e delicatezza.

La sua presenza nella nostra camera è stata tanto fondamentale quanto discreta, fino a diventare una sorta di membro della famiglia, capace di dialogare con Krishna, che parla solo marathi, e intercettare le sue richieste.

Christie si sdraia nel lettone, parla a bassa voce con lui, massaggiandolo e cullandolo fino a farlo sprofondare nel suo primo sonno in un letto vero.

Tutti i pensieri e le preoccupazioni che avevano inaugurato la nostra giornata sembrano per ora essersi diradati.

Nel lettone, stretto tra Gabriele che lo abbraccia e lo bacia, e Michela che lo guarda amorevolmente, Krishna ha trascorso la sua prima notte in un sonno agitato e poco sereno. Chissà quali pensieri lo turbavano, chissà quali sogni disturbavano il suo sonno.

Verso le tre di notte si è svegliato piangendo, più che altro perché il suo pancino stava reagendo al cambio di alimentazione e allo stravolgimento dei suoi orari. E così sarebbe stato per almeno un altro paio di giorni.

Siamo riusciti in breve tempo a farlo riaddormentare senza l’aiuto di Christie, anche se per lui il sonno è proseguito agitato.

Il richiamo del muezzin giunge dalle finestre della camera e inizia alle prime luci dell’alba. In breve tempo si aggiunge il canto di un gallo e poco dopo, quando il flebile sole non è ancora emerso dalle fronde delle palme, il traffico con i suoi rumori è già un costante sottofondo.

Non abbiamo dormito molto, ma al suo risveglio Krishna ci regala subito un sorriso. Non sembra sentire la mancanza dell’istituto o di volti a lui familiari e con noi si comporta da subito in maniera socievole. La complicità con Gabriele e con i suoi giochi è fondamentale, anche se il fratello maggiore inizia a comprendere cosa significhi condividere, non essere più al centro dell’attenzione, perdere i propri momenti di relax.

Passiamo una prima giornata tutti insieme, senza più fretta, senza la presenza delle donne dell’istituto, senza più ansie burocratiche. Visitiamo un importante tempio sikh e Krishna cammina al nostro fianco tenendoci sempre per mano. Guarda con attenzione ogni cosa, rimane incantato dai musicisti nel tempio, diventa oggetto della curiosità dei passanti che lo vedono per mano di una famiglia dalla pelle slavata.

Poco prima di un nuovo violento acquazzone siamo di nuovo in camera. Christie lo osserva mentre si diverte con i suoi nuovi giocattoli: seleziona gli animali che gli piacciono di più, si diverte a plasmare la plastilina colorata, pasticcia un album da colorare con i pennarelli.

Ad un certo punto ci rende partecipi di un gesto importante con cui condivide la sua fiducia nei nostri confronti: allunga una mano e tiene disteso il mignolino. Christie ci dice che vuole che facciamo a turno lo stesso e che i nostri mignoli devono legarsi in una sorta di saluto. Si fida di noi e questo gesto instaura un legame.

Nel pomeriggio si addormenta sul materasso che è poggiato sul pavimento; è un sonno questa volta sereno, quasi due ore in cui non cambia posizione cullato dal nostro parlare in sottofondo. Non deve più condividere lo stretto spazio di un letto singolo con altri bambini, può riposare su un morbido materasso nella quiete di una stanza che non è più quella del suo istituto.

Ritorno a Mumbai

Partiamo per tornare a Mumbai e la sensazione di aver lasciato indietro qualche cosa si accentua con la consapevolezza che in un armadio dell’istituto di Loha è disordinatamente conservato un fascicolo che parla dei primi quattro anni di vita di Krishna, della sua mamma biologica, del suo passato. Sono frammenti della sua esistenza, documenti preziosi che la grande disorganizzazione dell’istituto e dei suoi responsabili ci fanno temere che quello non è il luogo migliore per conservarli.

I giorni di Nanded sono stati preziosi per la nostra conoscenza reciproca e ora sono già terminati. Il tempo passato in albergo a osservarci e a conoscerci, la gita al tempio sikh sono trascorsi come sospesi in una bolla che ci ha protetto. Lasciamo con non poca nostalgia quel territorio che non avevamo trovato neppure sulle guide turistiche, i suoi panorami irregolarmente verdeggianti, le sue strade disconnesse percorse più e più volte, le campagne piene di animali, l’immagine delle tante altalene legate agli alberi che abbiamo visto dai finestrini dell’auto.

Torniamo al piccolo aeroporto di Nanded dove Krishna e Gabriele giocano a ricorrersi nei saloni semi deserti. Chissà se torneremo ancora da queste parti, chissà se nostro figlio vorrà mai tornare un giorno a recuperare le tracce del suo passato.

Krishna viaggia in aereo in braccio a Michela e non smette di guardare fuori dal finestrino. Viaggiare gli piace e anche l’aereo lo emoziona quanto l’auto e il tuk tuk. Chissà qual è la sua consapevolezza di quello che sta lasciando.

Mumbai ci riaccoglie con il suo caos, con la sua sovrabbondanza di ogni cosa, ma la camera del nuovo albergo diventa subito un piacevole luogo di decompressione, nonché un terreno di gioco per Gabriele e Krishna, che imita il fratello e inizia già a ripetere alcune parole in italiano, con l’impressione di comprenderne addirittura il significato.

Krishna vuole mangiare con le posate, si lava i denti da solo, si fa la doccia senza voler essere aiutato, gioca con il telecomando e il telefono come se avesse sempre fatto tutte queste azioni che invece sono tutte nuove. Cerca di imitarci o di dimostrare la sua capacità di indipendenza. Anche Christie è stupita dalla sua forza, dalle sue capacità, dalla voglia di recuperare una libertà che evidentemente prima non aveva.

I primi giorni a Mumbai trascorrono con i ritmi dettati dalla burocrazia e dai lunghi spostamenti in auto. Krishna è affascinato da tutto quello che scorre attorno a noi e quando siamo in giro a piedi non ci lascia mai la mano. Continua a non volere venire in braccio, anche quando affrontiamo lunghe camminate, come quella che facciamo lungo la spiaggia, sommersa di rifiuti, di fronte all’albergo.

Christie ci racconta che per la sua età ha già un’incredibile capacità oratoria e che mentre parlano tra di loro, quando deve addormentarsi, lui le ripete quello che ha visto nel corso della giornata e le sensazioni che ha provato.

Un pomeriggio, mentre siamo in camera a prepararci prima di uscire, accade un’altra cosa tanto inaspettata quanto emozionante: Krishna, che sta giocando e correndo per la stanza, ad un certo punto si ferma davanti a Michela e le da un bacio sulla guancia, poi fa lo stesso con Gabriele, con me e infine con Christie. Prima di questo momento non aveva voluto neppure ricevere baci. Siamo insieme da meno di una settimana e questo gesto emoziona tutti.

Conoscerci

Espletate le pratiche con il consolato italiano abbiamo qualche giorno per poter fare delle gite e trascorrere ore di spensieratezza tutti insieme. Sappiamo che molte famiglie preferiscono restare in albergo nei giorni precedenti al rientro in Italia, ma Krishna ha piacere a stare in giro e noi siamo contenti di poter assaporare il più possibile gli usi e i costumi della sua terra. Sono momenti preziosi, in cui il nostro nucleo familiare si consolida, si conosce, prende fiducia. Potremmo già essere a casa, in un ambiente a noi più intimo e familiare, ma capiamo che è importante che questa fase accada qui: possiamo ancora respirare l’atmosfera del mondo in cui è vissuto Krishna e per lui il passaggio ad una nuova vita avverrà in maniera meno traumatica. Christie, inoltre, approfitta di questo tempo per parlare dolcemente al bambino e per raccontargli cosa accadrà tra pochi giorni. Lo fa anche alla sera mentre lo culla per farlo dormire. La vediamo mimare le ali dell’aereo, capiamo che gli sta parlando di noi, del suo futuro lontano dall’India. La sua ninna nanne è ogni sera un insieme di parole per aiutarlo a comprendere il cambiamento che avverrà.

Dedichiamo queste giornate ad alcune piccole gite, che non stanchino troppo i bambini ma che ci permettano di stare all’aria aperta.

Visitiamo il tempio ISKCON a Mumbai, una struttura dedicata al culto di Krishna, e dove ancora una volta siamo colpiti dalla partecipazione e dalla forza che la religione esercita sui suoi adepti. C’è qualcosa di mistico e di rilassante in quei riti, vissuti con partecipazione collettiva e sempre accompagnati da musiche ipnotiche suonate dal vivo.

Mumbai è una città spossante e caotica, ma anche misteriosa ed enigmatica, che tra una pioggia monsonica e l’altra ci stordisce con il suo traffico, con le sue contraddizioni, i suoi odori, i suoi abitanti. Ci siamo spostati in lungo e in largo, affrontando lunghi tragitti su taxi o tuk tuk, ma quando osserviamo le nostre visite sulla carta geografica ci rendiamo conto che i nostri spostamenti sono stati ben poca cosa rispetto la vastità di questa megalopoli.

Decidiamo di dedicare una delle ultime giornate alla visita dell’isola di Elephanta, dove proviamo anche il viaggio in battello e dove, ancora una volta, Krishna dimostra una forza sorprendente, camminando per ore e affrontando la lunga scalinata verso le cave monumentali senza voler esser preso in braccio. Fatichiamo a credere che sia un bambino che ha passato quattro anni della sua vita chiuso tra le mura di una stanza. Anche questa è stata un’altra giornata stancante, ma ancora una volta i tempi dettati dalle pause per gli improvvisi acquazzoni o la lunga traversata nel mare di Mumbai ci permettono di perderci nei nostri pensieri.

Il nostro penultimo giorno a Mumbai è dedicato alla sistemazione di tutti i documenti che ci serviranno per superare i vari controlli alla dogana dell’aeroporto. Christie ha stampato la mail che conferma che a Mumbai non servirà l’exit permit, il documento che ha creato non pochi problemi ad altre famiglie adottive al rientro verso l’Italia. Inoltre ci organizza con precisione tutti i documenti per affrontare gli eventuali controlli sia a Mumbai che a Dubai, dove faremo scalo.

Nel pomeriggio camminiamo ancora una volta e senza una meta lungo l’immensa spiaggia della città. In mezzo ad una moltitudine di persone passeggiamo mentre il sole si abbassa lungo la linea dell’orizzonte.

L’ultima notte ci riserva purtroppo una brutta sorpresa. Krishna, che si era addormentato presto, è agitato e verso mezzanotte si sveglia piangendo. Ha chiaramente un forte dolore all’orecchio; le nostre coccole non bastano a placare il suo dolore né riusciamo a tentare di somministrargli un antidolorifico. Siamo costretti a chiamare Christie nel cuore della notte che dal suo albergo si precipita da noi, riesce a calmare il bambino e a fargli prendere la medicina.

Passiamo tutti una notte in bianco e alla mattina successiva siamo in ospedale per una visita di controllo che fortunatamente ci rassicura e ci permette di partire senza troppe preoccupazioni.

Nel tardo pomeriggio carichiamo i bagagli e ci portiamo verso il mastodontico aeroporto internazionale Chhatrapati Shivaji di Mumbai. Il distacco da Christie è doloroso perché stiamo per lasciare la persona che ha vegliato su tutti noi con una forza incredibile, che con delicatezza è entrata a far parte della nostra famiglia, ma soprattutto perché è stata fondamentale nel fare entrare il piccolo Krishna nel nostro nucleo familiare, agevolando la coscienza reciproca, risolvendo ogni problema, facendo sì che tutto si svolgesse senza preoccupazioni.

Ci salutiamo sulla porta di ingresso dell’aeroporto e continuiamo a farlo attraverso le vetrate mentre ci dirigiamo al check-in. Krishna la cerca e la chiama di continuo, forse consapevole che da quel momento non sarebbe stata più con noi. Fortunatamente Gabriele continua a distrarlo e a giocare con lui e anche i numerosi video che nei giorni appena trascorsi abbiamo registrato insieme sul cellulare aiutano Krishna a continuare a sentire la sua presenza, la sua voce e le sue parole.

Superiamo tutti i controlli senza grossi problemi e poco dopo le 22 siamo già sull’aereo pronti a lasciare l’India. Krishna è tranquillo, seduto tra Michela e Gabriele, curioso e sorridente come suo solito. Poco dopo sprofonderà in un sonno tranquillo che lo accompagnerà fino quasi in Italia e all’inizio di una nuova vita.

Jurij e Michela, agosto 2018

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